
Colloquio aperto
Testo di Bruno Zevi
n.1 luglio/agosto 2018
In occasione della grande esposizione dedicata al centenario della nascita di Bruno Zevi riportiamo per i nostri lettori l’editoriale da lui scritto per il primo numero della sua rivista, L’architettura. Cronache e storia, uscito nel maggio del 1955.
Un messaggio consapevolmente critico rispetto alle difficoltà dei suoi tempi – in fondo, non così distanti dalle nostre – ma ottimista rispetto a un futuro caratterizzato da apertura e integrazione
tra i diversi attori. In grado dunque di riscattarsi, a patto di riuscire a sconfiggere i singoli individualismi e canalizzare nuovamente le forze in un unico sforzo comune
Le considerazioni di Albert Camus sul destino degli intellettuali trovano una perentoria applicazione nel mondo degli architetti. Finora, bene o male, l’astensione è sempre stata possibile nella storia; artisti e storici potevano stare sulla gradinata, cantare e meditare per niente, per sé stessi o, nel, caso migliore, per incoraggiare il martire e distrarre un po’ il leone dal suo appetito. Oggi siamo imbarcati sulla galera del nostro tempo, ci troviamo dentro l’arena e la differenza è essenziale perché rischiamo qualche cosa:
“l’intellighenzia europea, nella misura in cui si è distaccata da ogni consolazione eterna, si vede costretta sotto pena di un nichilismo assoluto a realizzare la felicità sulla terra. Se non abbiamo che questa terra, la giustizia prende il posto della carità”. Sembra superfluo elencare i dati del nostro dramma sociale morale ed artistico: l’urbanesimo, la sorda speculazione fondiaria e edilizia, i tuguri dei poveri e anche dei ricchi, la città paralizzata nel traffico e nei servizi, il verde distrutto dalla marea di cemento che avanza senza piano, la campagna e il paesaggio offesi, gli ambienti storici violentati, i monumenti vandalicamente abbattuti. Dinanzi a tanta miseria l’arte, se vuol continuare ad essere un lusso, deve accettare d’essere una menzogna. Bloccata nell’artificioso dilemma tra formalismo e realismo, tra attualità e storia, la nostra cultura architettonica si disintegra: i formalisti continuano la loro conversazione mondana in esperienze astratte, commoventi ma incomunicabili; i realisti si illudono di servire la gente accettandone i luoghi comuni senza operare una scelta, e precipitano nella follia di sadici ritorni al neoclassico; gli storici si chiudono in una roccaforte conservatrice, insensibili al laboratorio di temi e di ricerche che li contorna; i critici che anelano all’attualità cadono di regola nel giornalismo. Nel quadro di tali interessi sezionali di cultura – ognuno col suo stentato organo pubblicitario, la sua ristretta clientela, la sua parziale visione – è impossibile registrare le sofferenze e la felicità di tutti nel linguaggio di tutti, raggiungere quella coordinata cultura che pure è nelle inquiete aspirazioni del nostro tempo. Questa rivista ha il preciso intento di favorire un’integrazione della nostra cultura architettonica riflettendone tutte le istanze. È il risultato di un atto di ottimismo. Non avremmo interrotto e trasformato Metron, che è stata la prima rivista del dopoguerra e per dieci anni ha rappresentato un parametro sicuro nel mondo degli architetti italiani, se non avessimo la convinzione che si può fare meglio e che perciò vale la pena rischiare. Non occorrono molte parole per spiegare le finalità della rivista: basta scorrerne le pagine ed esaminarne le rubriche per constatare che si tratta di una pubblicazione nuova, diversa dalle altre. The Architectural Review di Londra ne rappresenta l’esempio più vicino, benché essa sia concepita in una cultura metodologicamente meno rigorosa e psicologicamente più fertile della nostra.
Cronache e storia dell’architettura, problemi dell’architettura che si fa e dell’architettura che si ricrea e reinterpreta perché torni a parlare con attualità. La scissione tra architettura moderna e storiografia architettonica si è dimostrata culturalmente letale, ha favorito la sostituzione della propaganda alla critica nel giudizio sull’arte del nostro tempo, e del rapporto filologico a un’impegnata lettura storica nella trattazione dell’architettura antica. L’ultima importante rivista italiana in cui si discussero, in eclettica giustapposizione, problemi di attualità e storia fu Architettura e Arti Decorative che cessò le pubblicazioni nel 1931: allora Piacentini diresse Architettura in modo acritico, e Giovannoni fondò Palladio secondo criteri positivistici. A Milano, Giuseppe Pagano, figlio di un archeologo, tentò di convogliare nella sua Casabella – Costruzioni le forze più vigili della storia dell’arte, e ottenne la collaborazione saltuaria di Lionello Venturi, M. Marangoni, C. L. Ragghianti, G. C. Argan ed altri; ma la lotta politica e morale divenne così assordante che la doppia esigenza di una storicizzazione dell’architettura moderna e di una attualizzazione della cultura storica in architettura rimase solo parzialmente appagata.
Sono passati molti anni, la dittatura e l’impeto della liberazione, la guerra e la caotica vitalità della ricostruzione. Le istanze che erano appena affioranti nella coscienza delle persone intellettualmente
più fervide si sono diffuse. Il movimento moderno, vinta la sua battaglia linguistica, è divenuto maturo perplesso pensoso, intende che, senza aderenza alle realtà e conoscenza intima della tradizione, scada in forme teoricamente perfette ma vuote di senso. La storiografia architettonica si è rinnovata, i monumenti sono rivissuti in modo organico e palpitante, come oggetti che servono alla nostra vita e non solo a consolarla. È quindi possibile auspicare una rivista che rifletta l’intera gamma degli interessi architettonici: da quelli politici a quelli artistici, da quelli professionali a quelli storici, che saldi le esperienze contemporanee con la tradizione, che integri la coscienza dell’arte attuale con lo studio, condotto con moderna sensibilità, del passato. Questo è il proposito vasto di L’Architettura cui ognuno può collaborare perché c’è posto per tutti in questa avventura nella realtà varia pluriforme dei nostri temi architettonici. Per ampliare il colloquio, per renderlo più fecondo ricettivo coraggioso, sacrifichiamo volentieri la ‘sicurezza’ acquistata in dieci anni di lavoro per Metron.
Lo schema della rivista è chiaro dalle rubriche che abbiamo discusso con decine di persone. Gli editoriali in breve permettono a ogni architetto di esprimere il proprio giudizio su una situazione politica artistica o tecnica, di presentarlo all’opinione pubblica senza bisogno di scrivere un lungo forbito e inutile articolo. Le costruzioni e i progetti documentano ciò che si crea di significativo in ogni aspetto: dalla perfezione industriale del Palazzo Olivetti a Milano all’Albergo di Mondello, figurativamente ‘impuro’ ma umanamente valido, dalla ricerca di nuove vie espressive del Padiglione di Cagliari al manierismo educato della Villa presso Treviso, al comprensivo panorama linguistico costituito dalle varie proposte per la Stazione di Napoli. Gli articoli: Piccinato centra il vero proposito della rivista dimostrando come gli ambienti urbani antichi siano salvabili solo inserendoli con funzioni vitali nei moderni piani regolatori.
Apriamo la discussione sull’unita di abitazione orizzontale del Tuscolano, sul suo carattere antitradizionale e perciò sui pericoli di una sua indiscriminata applicazione.
Paesaggio urbano illustra l’arredamento della città che è divenuto ormai talmente invadente da sconfiggere i suoi spazi. Si passa così, senza cesure, alle sezioni storiche: una breve memoria sull’episodio saliente del concorso per il Palazzo Littorio che fu al centro, venti anni fa, della polemica per l’architettura moderna; l’eredità dell’Ottocento che riprendiamo da Metron estendendola, com’è logico, fino al periodo neoclassico; un monumento non solo accademicamente rilevato ma modernamente riletto in una penetrante passeggiata fotografica. Un saggio sul Mezzogiorno illuminante una situazione storica e psicologica di antica genesi che gli architetti moderni cominciano soltanto oggi a scoprire e non sanno ancora abbracciare senza artificiosità. Il giudizio di uno scultore o pittore o letterato sull’architettura antica e moderna, testimonianza di affinità spirituale e di gusto più valida di tante fittizie elucubrazioni sull’unità delle arti figurative.
La sezione strutture intende spronare quell’inventività costruttiva che è inerente al lavoro architettonico. Poi, la bibliografia architettonica, strumento indispensabile all’artista colto, allo studente, allo storico; i notiziari, libri riviste concorsi legislazione vita universitaria e professionale, in questo numero ristretti per ragioni di spazio, ma che amplieremo sistematicamente e aggiorneremo con un bollettino speciale gratuito per i nostri abbonati in modo che essi siano mensilmente informati. Infine, una sezione edita a cura della Fondazione Aldo della Rocca, il nostro indimenticabile amico, e dedicata alla pubblicazione di monografie urbanistiche.
Questi gli argomenti che intendiamo trattare in ogni numero della rivista. Per collaborare con noi non occorre essere né geni creativi, né storici di professione, né letterati. Ogni architetto, ogni ingegnere, ogni amministratore di enti edilizi, ogni studente ha una notizia da dare, un problema da risolvere, una proposta da sottoporre alla pubblica opinione.
La rivista vuol costituire questo ‘servizio’ per tutti, costruttori e urbanisti, architetti e clienti, archeologi e tecnici, politici e storici. A costo di apparire eclettici convogliando forze e interessi diversi e complementari, bisogna ristabilire un vasto colloquio, una intesa atta a promuovere e ad estendere la libertà dell’architettura.





