
Broken Nature: Design takes on human survival
Testo di Beppe Finessi
n.4 luglio/agosto 2019
Beppe Finessi, già curatore della mostra ‘Stanze. Altre filosofie dell’abitare’ presentata nell’ambito della scorsa edizione della Triennale, è stato ora da noi invitato a raccontare ‘Broken Nature’, la mostra tematica che dà il nome all’Esposizione internazionale di Milano di quest’anno, curata da Paola Antonelli. Con sguardo cinematografico l’architetto ci accompagna in un intenso viaggio tra alcune delle opere più caratteristiche e significative, che affrontano ed esplorano il delicato rapporto tra uomo e natura, ponendoci di fronte a interrogativi e contraddizioni propri del nostro presente
“Negli ultimi due secoli, ad un ritmo vertiginoso (…) abbiamo deforestato, portato all’estinzione, trivellato, estratto, fertilizzato, scavato, spianato cime delle montagne e trasformato il nostro pianeta, e sembriamo intenzionati a fare lo stesso con gli altri. Abbiamo depositato particelle radioattive che altereranno l’habitat per secoli, inquinato con i pesticidi, soffocato con le emissioni di anidride carbonica (…). Urge un risveglio alla realtà, e urge uno sforzo comune per riparare non solo i legami, ma anche la nostra visione della posizione dell’essere umano nell’universo”.
Paola Antonelli ci ha educato a riflessioni non convenzionali, e ha informato il nostro mondo con uno sguardo scientifico, mai allineato alle consuetudini che vorrebbero il design solo in prossimità dei grandi numeri o al limite vicino all’opera artistica.
Personalissime ricerche, le sue, che, pur condotte all’interno di una cabina di regia istituzionale (il MoMA di New York, dove lavora da 25 anni), sembrano partire spesso da discipline come scienza, antropologia, biologia, economia…, concentrandosi sempre su territori altri, come in questo caso l’ecologia: un tema sempre attuale, quello della natura e dell’ambiente, diventato finalmente presente nell’agenda politica di molti paesi, grazie anche alla risonanza mediatica delle azioni della giovanissima Greta Thunberg, che con la sua severa e coerente presenza sembra avere scosso le coscienze dei giovani e forse dei potenti.
‘Broken Nature’ è un progetto espositivo orchestrato in modo rigoroso, ma anche accelerato da colpi d’ala, da scarti di lato, che aprono a nuovi scenari, a volte inquietanti e anomali, perché sostenuti da un punto di vista eccentrico: un controcanto disincantato rispetto alle nostre quotidianità.
Una mostra ben allestita dallo Studio Folder e Matilde Cassani, con momenti iniziali di grande poesia, e fortemente caratterizzata da un progetto grafico sofisticato messo a punto da Anna Kulachek, che ha posto come accenti visivi nel percorso espositivo (e nel catalogo) diverse decine di icone, per sottolineare i tanti ambiti presenti, come ‘cambiamento climatico’ e ‘riscaldamento globale’, ‘disastri naturali’ e ‘effetto serra’, ‘sovrappopolazione’ e ‘giustizia sociale’, ‘commercio sleale’ e ‘sicurezza alimentare’, ‘rifiuti elettronici’ e ‘privacy’, ‘proprietà intellettuale’ e ‘lavoro minorile’, e molti altri ancora.
Una riflessione critica, quindi, dove l’impegno e l’ingegno sono il cuore di ogni racconto.
Un’esposizione che si apre in modo enigmatico, con l’ingresso nell’Impluvium al primo piano del Palazzo della Triennale di Milano, dove l’installazione The Room of Change è un gigantesco arazzo di dati dove il decoro è un’infografica piacevolissima nonostante i contenuti siano spesso drammatici, e si conclude nello spazio di fronte oltre il ponte di Michele De Lucchi, con The Great Animal Orchestra, un viaggio alla ricerca delle origini non umane della musica che presenta ‘la segreta e complessa organizzazione delle vocalizzazioni animali’: coinvolgente e inaspettato concerto che diventa una presenza complementare alla successiva ricerca di Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante, riflessione densa di contenuti scientifici che impressionano e fanno riflettere, purtroppo allestita con soluzioni scenografiche retoriche e superate.
Iniziato il percorso, da subito sembra poter aleggiare lo spirito di Bruno Munari: lui che ha scritto Good Design, facendo il verso alle mostre sulla ‘buona forma’ e ricordandoci che un’arancia (sì, proprio il frutto della natura!) può essere letta come un progetto di design, sembra essere il padre nobile del progetto Plastiglomerate, tra le prime affascinanti opere esposte: frammenti di detriti di plastica e sedimenti sabbiosi, veri e propri fossili del futuro depositati dall’oceano a Kamilo Beach, sulle Isole Hawaii , e presentati come ‘objets trouvés di natura artistica’: come non ricordare Il mare come artigiano, disarmante ragionamento che già dal 1944 Munari proponeva indicando nei ‘prodotti’ che le onde trasportano sulle spiagge vere e proprie opere stupefacenti e originali…?
Alcuni progetti provano a sottolineare, con presentazioni di grande eleganza, l’importanza di considerare una goccia di acqua pulita, una manciata di terra, una raccolta di minerali, oppure un fiore, come inestimabili risorse spesso date per scontate ma che un giorno potrebbero scomparire, alludendo a un’epoca futura in cui una margherita potrà essere più preziosa di un diamante (Reliquaries); altre ipotesi, con ricerche d’ingegneria genetica avanzata, provano a ricostruire il profumo di alcuni fiori ormai estinti, riconsegnandoci una caratteristica quanto mai unica e difficilmente visibile (Resurrecting the Sublime).
Molti cimenti riguardano il problema dell’acqua, tra siccità e scarsità, consumo e inquinamento: Ice Stupa è un ghiacciaio artificiale creato convogliando un torrente nella regione del Ladakh nell’Himalaya indiano, per garantire l’acqua alle comunità locali; Wonderwater Cafè illustra graficamente, in una sorta di menù, il consumo idrico per la preparazione del cibo; Hippo Roller è un contenitore per l’acqua di grande capacità e di facile trasporto; Tlaloque 200 Liter e Água Carioca-Urban Circulatory System in Brazil sono soluzioni per sfruttare l’acqua piovana e trattare/riciclare le acque reflue in aeree geografiche povere.
L’insieme è una vera enciclopedia alternativa verso un’altra ecologia, scandita da opere poco note (sì, il desueto, il meno noto, la ricerca più sperimentale sembrano essere gli approcci privilegiati), ma dove abbiamo ritrovato anche alcuni progetti recenti giustamente molto fortunati e quindi conosciuti: come Capsula Mundi, che anche in questo contesto riesce a emergere per la propria forza, concettuale ed espressiva, oltre che per la chiave etica che la sottende; come 100 Chairs in 100 Days, che continua ad essere un modello dedicato a riconvertire con compulsiva creatività oggetti scartati e abbandonati; come PIG 05049, un libro che racconta gli innumerevoli prodotti (185!) ottenuti da un maiale macellato, mostrandoci con una grafica efficace i tanti utilizzi che di questo animale si possono realizzare (e domandandosi se “quando la gelatina di maiale finisce nel dentifricio e le sue ossa sono usate per produrre i freni dei treni, chi può veramente dirsi vegano?”).
Non mancano progetti che indagano ambiti più tradizionali, come il riciclo o il recupero dei materiali, tra lattine di alluminio e contenitori di plastica, così come emergono temi ricorrenti come l’inquinamento atmosferico: qui emozionano No Plooshon Jacket, una tuta con cappuccio che evita di inalare i gas di scarico delle automobili, immaginata da un bambino affetto da asma, e Woobi Play, mascherine antinquinamento dedicate sempre ai più piccoli, per proteggerli ed educarli ai temi ambientali.
Stupiscono opere che, ragionando sugli scioglimenti dei ghiacciai, riflettono sui cambiamenti dei confini e sui possibili conflitti geopolitici che così potrebbero generarsi (Italian Limes e The Legal Status of Ice), mentre fanno sorridere ipotesi davvero spiazzanti come Goatman: l’autore, Thomas Thwaites, ha progettato protesi per imitare la postura e le caratteristiche fisiche delle capre, e ha passato alcuni giorni a quattro zampe con un gregge di questi animali: un modo per comprendere la quotidianità di “altre specie con cui condividiamo il mondo”!
L’insieme dei progetti, delle ricerche e delle suggestioni proposte offre la possibilità di capire che possono essere tante le strade da percorrere per fare la propria parte: ognuno potrebbe sentirsi utile, e tutte le discipline e tutti i possibili attori potrebbero contribuire a rallentare il processo che sta velocemente portando il nostro pianeta al collasso.
E così forse, criticamente parlando, potremmo riscoprire posizioni lontane tra loro e nel tempo, iniziando magari a rileggere Tomás Maldonado e il suo lucido Disegno industriale: un riesame, proprio mentre inizia a riecheggiare nell’aria la lezione di Victor Papanek e del suo Progettare per il mondo reale (Design for the Real World), mentre potremmo cercare un nuovo viatico in quel Progettare per sopravvivere (Survival through design) di Richard Neutra, dove ci si domanda se “si può progettare il destino?”. Di certo Paola Antonelli, chiudendo questa sua coinvolgente riflessione, dimostra di avere le idee chiare: “Il design dovrebbe essere centrato non solo sull’essere umano, ma sul futuro della biosfera (…). Se i governi e le strutture di potere non considerano con sufficiente serietà l’impellenza delle problematiche ambientali (…) il design può offrire non solo creatività tattica, ma anche messa a fuoco e strategia (…). Anche a chi crede che la specie umana si estinguerà in un futuro (prossimo? lontano?) il design offre i mezzi per pianificare una fine più elegante. Può assicurare che la prossima specie dominante si ricordi di noi con un minimo di rispetto: come essere dignitosi e premurosi, se non intelligenti. La nostra unica possibilità di sopravvivenza è progettare la nostra.








