Manifesto della ‘Strada Novissima’

Biennale di Venezia 2018

Testo di Marco De Michelis

n.2 settembre/ottobre 2018

La trasformazione che ha subito la Mostra Internazionale di Architettura di Venezia nei quasi quarant’anni intercorsi tra la ‘Strada Novissima’ di Paolo Portoghesi e l’edizione ‘Freespace’ curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara, si è rivelata profonda ma coerente: il critico, nel suo tentativo di proporre una propria personale visione dell’architettura, ha lasciato posto all’abile progettista, in grado di costruire il mondo che abitiamo. Le Grafton Architects, nel confermare la tendenza, dimostrano come questa non disturbi il significato profondo di una riflessione sull’architettura che si racconta come spazio libero per gli uomini.

Se la nostra vicenda deve avere un inizio, questo potrebbe senza incertezza essere individuato in quella ‘Strada Novissima’ del 1980, nella quale Paolo Portoghesi non solo ha svelato al pubblico lo spazio incantato delle Corderie e dell’Arsenale veneziano, ma ha anche sperimentato una modalità originale di concepire la mostra di architettura, non come la documentazione di progetti e di realizzazioni, ma come l’invenzione di un vero spazio architettonico. Un altro inizio potrebbe essere forse quello del 1974, quando Vittorio Gregotti fu nominato direttore del settore arti visive e iniziò ad affiancare mostre di architettura a quelle tradizionali di arte. Sono dunque passati quasi quarant’anni e si sono succedute una dopo l’altra almeno sedici edizioni fino a quella di quest’anno, intitolata ‘Freespace’ dalle sue curatrici, Yvonne Farrell e Shelley McNamara, ottime progettiste dello studio irlandese intitolato alla storica via di Dublino, Grafton Street. Nelle prime edizioni, responsabili della mostra internazionale sono stati soprattutto critici influenti o architetti protagonisti della riflessione critica sulla loro disciplina, come Kurt W. Forster, come Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi o Hans Hollein.

L’obiettivo ambizioso dei loro progetti curatoriali era quello di proporre una rappresentazione dello stato dell’arte dell’architettura coerente con un punto di vista tendenzioso che cercava di sottolinearne i caratteri peculiari: il delinearsi in prospettiva della stagione postmoderna per Portoghesi; il dialogo interdisciplinare e la specificità dell’architettonico per Gregotti; l’architettura come rispecchiamento di cangianti realtà per Hollein; la figura della metamorfosi come irriducibile chiave interpretativa della modernità per Kurt Forster.

Ma di edizione in edizione, il mondo sembrava cambiare sempre più in profondità. Quando Portoghesi si era cimentato con l’invenzione della Strada Novissima non esistevano ancora né i personal computer, né internet.

Non erano state ancora introdotte le tecniche di modellazione digitale e il mondo della architettura era ancora quello ristretto al vecchio continente europeo e alle realtà sempre più influenti degli Stati Uniti di America, fino alle terre lontane del Giappone e del Sud America.

Era ancora possibile dare forma a un racconto le cui vicende non risultavano conosciute al grande pubblico, ricorrendo alle tecniche consuete di rappresentazione del progetto: piante, prospetti, sezioni, accompagnati da plastici e da fotografie. Con la diffusione di internet e delle modellazioni digitali, la rapidità con cui l’informazione poteva diffondersi rendeva sempre più difficile la possibilità di fissare un’immagine originale dello stato dell’arte: tutto era già, in qualche modo, conosciuto.

Con questa evidente difficoltà dovevano fare i conti gli architetti di volta in volta prescelti a dirigere le più recenti edizioni dell’esposizione internazionale di architettura dell’istituzione veneziana.

Gli architetti: perché le ultime edizioni hanno sempre visto all’opera non già critici o curatori, ma architetti soprattutto impegnati nell’esercizio della loro professione di progettisti e di costruttori: Fuksas, Sejima, Aravena, Chipperfield, Koolhaas, fino alle Grafton, prescelte per l’edizione del 2018. Gli interrogativi proposti da questa originale strategia operata dal presidente della Biennale Paolo Baratta sono numerosi: di questi probabilmente il più banale è rappresentato dal fatto che gli architetti coinvolti erano e sono normalmente impegnati a progettare e costruire edifici, piuttosto che a investigare e riflettere sulle pratiche progettuali in atto nel mondo, a conoscerne i sempre nuovi protagonisti e le più aggiornate realizzazioni, a riflettere sulle modalità peculiari con le quali rappresentare ‘pensiero e azione’ dei loro colleghi nelle diverse regioni del mondo.

Sejima sembra aver risolto il problema attraverso la collaborazione di un’esperta curatrice di un museo giapponese, a cui toccava in sorte il compito di trovare le risposte agli interrogativi formulati dal direttore, individuando gli attori del racconto espositivo, nell’universo dell’architettura ma anche in quello delle arti visive.

Chipperfield optava invece per una tematizzazione della mostra che ne consentiva una successiva articolazione proprio come se fosse un progetto architettonico sviluppato passo a passo dalle strutture del grande studio professionale.

Ancor più radicale era la scelta di Koolhaas, che rinunciava del tutto alla consueta vocazione documentaria della mostra, articolando invece l’esposizione su tre piani distinti: i diversi incontri dei paesi del mondo con l’avvento della modernità che era stato autorevolmente suggerito come tema per i padiglioni nazionali; un bizzarro e frammentario ritratto antropologico dell’Italia contemporanea e, soprattutto, una grande mostra che si poneva l’ambizioso obiettivo di indagare gli elementi ‘fondamentali’ dell’architettura stessa, quelli materiali, piuttosto che quelli ideali: le porte, le finestre, le scale e i locali igienici, e non concetti come stile, funzione e così via.

Un paradosso di questo approccio curatoriale sembra essere stato quello della rinuncia da parte di questi architetti alla vocazione ‘esibizionista’ dell’architettura moderna della prima metà del Novecento: dalla casa-modello del Bauhaus nel 1923, al Padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier a Parigi nel 1925, alle case sperimentali del quartiere Am Weissenhof a Stoccarda, alla casa arredata da Mies van der Rohe a Berlino nel 1932, fino alle sculture abitate degli Smithson alla mostra ‘This is tomorrow’ di Londra e alle installazioni di Superstudio e Archizoom alla mostra sul design italiano del MoMa newyorkese. La storia dell’architettura del Novecento può davvero essere declinata anche come storia della sua rappresentazione e delle sue mostre.

Gli architetti-curatori della Biennale sembravano, invece, pronti a mostrare qualsiasi cosa, ma non il proprio lavoro architettonico, e in qualche caso neppure ad assumersi la responsabilità del display espositivo. È stato anche il caso dell’edizione 2018, affidata, come abbiamo già ricordato, a due straordinarie architetti irlandesi, fondatrici dello studio Grafton di Dublino, e autrici di edifici esemplari come la sede dell’università Bocconi a Milano o quella della facoltà di economia a Lima in Perù. La soluzione adottata in questa occasione è stata l’elaborazione di un breve manifesto, proposto agli architetti invitati come spunto critico per definire le caratteristiche della loro partecipazione alla mostra. ‘Freespace’ descrive un’architettura del tutto coerente con la ricerca progettuale delle stesse Grafton: un’architettura concentrata sulla qualità dello spazio, generosa di spirito e capace di stimolare soluzioni capaci di migliorare il benessere e la dignità degli uomini.

‘Freespace’ è dunque un’architettura che non rinuncia alla bellezza, ma la usa per suscitare emozioni e consapevolezze.

Come si vede, non era difficile riconoscersi in questo manifesto così ottimisticamente ‘positivo’: potevano farlo architetti impegnati in una critica severa della modernità e in un recupero profondo delle identità peculiari dei luoghi, come i cinesi di Amateur Architecture Studio o il portoghese Álvaro Siza; silenziosi cantori dell’essenziale e dell’assoluto come Peter Zumthor o radicali sperimentatori del fragile e del provvisorio come Lacaton e Vassal; ma anche ricercatori audaci, pronti ad attraversare i territori a cavallo tra l’arte concettuale e le tecniche digitali come Diller e Scofidio con Renfro.

Ancor più a loro agio ci si sono ritrovati architetti militanti come il cileno Alejandro Aravena, la cui edizione precedente della mostra veneziana aveva letteralmente chiamato a raccolta le pratiche dell’architettura dedicate ai margini del mondo, o l’americano Michael Maltzan che ha offerto a Venezia un bellissimo progetto per un isolato residenziale del vecchio centro di Los Angeles, destinato ai settori più fragili e più instabili della popolazione losangelina; o ancora l’umile tenacia di Francis Kéré o di Gion Caminada, l’uno impegnato a trasformare le originarie tecniche costruttive del suo paese africano per renderle ancora utilizzabili nel contesto contemporaneo, l’altro che ha scelto il villaggio natale di Vrin come la patria della sua intera vicenda di architetto.

E poi: Giuseppina Grasso Cannizzo, Marina Tabassum, Anna Heringer…

Ancora una volta, la Biennale veneziana si conferma come l’occasione più ricca, persino più sterminata, che l’architettura di oggi possa offrire nel mondo. Questo non impedisce che vi si possano anche riconoscere posizioni discutibili, persino equivoche, o una sorprendente mancanza di emozione nel concepire la presentazione dell’opera di qualche invitato. Ma a tutto questo non è consentito di disturbare davvero il significato più profondo di una riflessione sull’architettura che si racconta come spazio libero per gli uomini.

Manifesto della ‘Strada Novissima’
Álvaro Siza Vieira, Evasão
Souto de Moura, Vol de Jour
Elemental, The Value of what’s not built
Diébédo Kéré, ZOI