Chi interpreta meglio il Papa negli ultimi film usciti? Confronto tra colossi.
Due modi opposti di entrare nella veste più sacra (e scomoda) del mondo. Due attori che non si sono limitati a interpretare un papa, ma lo hanno incarnato, riscrivendo le regole della rappresentazione ecclesiastica sullo schermo. Anthony Hopkins in I due papi e Jude Law in The Young Pope non hanno solo conquistato pubblico e critica: hanno lasciato un segno indelebile nella storia dell'audiovisivo contemporaneo. Hopkins sceglie la via del silenzio, del peso, del dubbio. Il suo Benedetto XVI è un uomo che porta addosso tutta la stanchezza del mondo. Ogni sguardo è una resa. Ogni parola, un sussurro carico di anni, scelte, errori. In quel dialogo serrato con il Francesco di Jonathan Pryce, diretto da Fernando Meirelles, Hopkins costruisce una cattedrale fatta di esitazioni e pause, più potente di mille sermoni.
E il pubblico lo sente: quella fragilità, quella consapevolezza dei limiti umani, parlano a tutti. Jude Law, invece, entra in scena come un fulmine. Il suo Lenny Belardo è giovane, spietato, misterioso. Non cerca approvazione, la pretende. Il regista Paolo Sorrentino gli costruisce attorno un Vaticano barocco, visivamente abbacinante, dove ogni inquadratura è un quadro. Law ci cammina dentro come un messia pop, mescolando durezza e dolcezza, visioni e provocazioni. È un papa immaginario, sì, ma anche profondamente reale nella sua disperata ricerca di fede.
Due visioni opposte, due film sul Papa, due colpi al cuore
Hopkins colpisce al centro dell’anima. La sua performance in I due papi è stata definita a dir poco perfetta, e non è un modo di dire. L’Academy lo ha nominato all’Oscar, e il mondo ha applaudito quella capacità rara: commuovere senza urlare, smuovere senza scuotere. La sua è un’emozione che ti cresce dentro, scena dopo scena. Law, al contrario, è un pugno allo stomaco. Inquieto, affascinante, contraddittorio: The Young Pope vive grazie alla sua presenza magnetica. È una serie che divide, e anche per questo resta. La sua interpretazione ha conquistato i Golden Globe, anche se non ha portato a casa la statuetta. Ma chiunque abbia visto la scena iniziale con lui, in vestaglia che attraversa il Vaticano sulle note di All Along the Watchtower, non l’ha più dimenticata.

Se il metro è l’intensità emotiva, la capacità di generare empatia, allora Hopkins ha un vantaggio. La sua è una performance che ti svuota, che ti costringe a fare i conti con te stesso. È la fragilità che diventa forza, il silenzio che urla. Ma se il criterio è l’impatto culturale, la rottura degli schemi, la sfida al conformismo, allora Law è inarrivabile. Il suo papa è un’icona pop, una provocazione necessaria in un mondo che ha ancora paura di parlare di fede senza retorica. In un panorama spesso dominato da performance dimenticabili, Hopkins e Law dimostrano che l’arte dell’interpretazione ha ancora molto da dire. Diversi, agli antipodi, ma complementari. Entrambi hanno fatto del Vaticano un palcoscenico per l’anima. Ed è proprio qui che si nasconde la grandezza: nella capacità di trasformare un ruolo sacro in qualcosa di universale. Due performance, due capolavori. La scelta la lasciamo a voi.